“Il rito funebre è una prefigurazione del lutto”, è l’osservazione di Christian de Cacqueray, il fondatore del Service Catholique des Funérailles. Durante il nostro incontro a Parigi, ci ha spiegato che i funerali costituiscono una sequenza aumentata della vita, il posto del rito nel funerale, l’importanza di costruire il percorso funebre in una relazione e come il rito funebre sia un condensato del lutto.
Qual è il posto del rito nel funerale?
I rituali si sono evoluti. Ad esempio, si osserva la diminuzione delle veglie della salma a casa, una diminuzione dei funerali in chiesa, la loro sostituzione con cerimonie laiche guidate da servizi di pompe funebri, l’aumento delle cremazioni, ecc. Oggi direi che è tutto diverso, nel senso che i comportamenti non sono più unificati. Siamo nell’era dell’atomizzazione, della personalizzazione, e anche per i funerali le persone vogliono inventare qualcosa di singolare che segni l’identità di questo tempo, ad immagine del defunto o di ciò che era per loro, al fine di suscitare emozione. Così, qualsiasi protocollo rituale è sospettato di una sorta di freddezza, di costituire un lato un po’ artificiale, ripetitivo e disincarnato.
Costruire il rito funebre nella relazione
Al Service Catholique des Funérailles dobbiamo tenere conto di questa esigenza di unicità nella costruzione del percorso funebre che include l’addio al volto, la celebrazione in un luogo di culto e il destino finale delle spoglie. Cuciamo a mano per adattarci alle famiglie. Prendendosi il tempo per spiegare loro tutto ciò che è possibile e lasciandoli liberi di scegliere la soluzione migliore.
Costruire questo viaggio rituale nella relazione è il cuore della nostra missione. Siamo in un rapporto di fornitori di servizi, ma andiamo a mani nude e con il cuore aperto, cioè ci basiamo sull’incontro con le famiglie. Finché le persone non ti hanno raccontato un po’ di quello che hanno passato prima della morte, chi sono, chi erano i loro genitori, non puoi ragionevolmente sapere come saranno organizzate le cose.
Cerchiamo di avere una libertà interiore per capirli, per sentire da dove vengono, con cosa sono lì, intorno a quel tavolo. A volte la morte ha auto luogo tre ore prima che ci incontrassimo, oppure in modo molto brutale il giorno prima. Quindi, da questo, sorgono diverse domande. Per esempio: “Ti interessa rivedere il defunto e vegliare su di lui?” Per le persone che hanno trascorso mesi a prendersi cura di una persona cara malata, questa potrebbe non essere necessariamente la priorità.
Che cosa si gioca al livello umano quando si perde una persona cara?
È un grande sconvolgimento, un terremoto, una messa in discussione. La morte squilibra un costrutto relazionale che ha contrassegnato la nostra vita, nella nostra famiglia ma anche tra i nostri amici, al lavoro, nel nostro quartiere, in tutti i nostri luoghi di investimento. Una persona che muore non c’è più. E da un giorno all’altro, dobbiamo reinventare le nostre relazioni senza di essa. Questo è il grande problema.
In un contesto di urgenza che si avverte più intensamente nelle metropoli dove si è persa la cultura del tempo funebre, dove tutto sembra complicato, bisogna prima riuscire a immergersi nella saggia formula di Antoine de Saint-Exupéry: “Il rito è nel tempo, ciò che la casa è nello spazio”. Mi spiego meglio: la persona in lutto è a nudo. La morte di una persona cara è abrasiva. Colui/colei che stava accompagnando, all’improvviso è morto. Qualcosa sulla falsariga di “mai più” si impone su di lei.
In che modo il rito è per lei una “casa”? Queste tappe del rito (ad esempio martedì, ore 9.30, saluto al volto all’Ospedale San Giuseppe, celebrazione alle ore 10.30 presso la parrocchia del Santissimo Sacramento, sepoltura nel cimitero di Montparnasse), sono una residenza simbolica in corso di costruzione.
Permette alle famiglie di proiettarsi nel concreto. L’ Addio al volto, chi ci andrà? Portiamo i bambini? Parleremo in quel momento? Che cosa diremo, testi, preghiere? In chiesa, chi incontrerà l’équipe, l’officiante, preparerà il libretto, si prenderà cura dei fiori o parlerà? E per la sepoltura?
Funerali:”sequenze di vita aumentata”
In questa costruzione, osservo un fenomeno ricorrente: la necessità di annunciare la morte affinché questa morte diventi un evento. Per quale motivo? Perché abbiamo bisogno del collettivo. Annunciare un lutto sui giornali è come una bottiglia nel mare. Pubblicando un annuncio, speriamo di raggiungere le persone con cui avevamo perso i contatti o addirittura non sapevamo che esistessero, ma che hanno avuto un ruolo nella vita del nostro defunto: un insegnante di pianoforte che aveva avuto da bambino o dei pazienti per esempio. Leggeranno l’annuncio e si presenteranno al funerale. Questa dimensione collettiva non solo ci fa stare bene, ma riunisce anche un tessuto umano che spesso viene dissolto dalla quotidianità e dai social network.
Sappiamo tutti intuitivamente che i funerali sono momenti straordinari. Io le chiamo “sequenze di vita aumentata”. Il valore simbolico è ovunque, in tutto ciò che sta accadendo in quel momento e che segnerà la nostra memoria.
C’è anche la dimensione dell’affettività. Conosci altri momenti nella vita in cui le persone si dicono parole di conforto, affetto e amore l’un l’altro in proporzioni così grandi? Quando ti ritrovi a piangere la perdita di uno zio un po’ distante, potresti voler condividere un ricordo. Può essere molto aneddotico, ma fa così piacere!
Christian de Cacqueray : Il rito funebre è una prefigurazione del lutto
Il viaggio rituale del funerale prefigura il processo di lutto, che richiederà mesi o addirittura anni. Lo si può trovare in ogni fase del funerale.
Prima tappa: l’addio al volto
Ci permette di prendere coscienza della realtà, della perdita. Nelle nostre campagne si diceva: “Quando baci un morto, non lo sogni più”. C’è del vero in questo, perché quando tocchi il corpo freddo, diventi consapevole che la vita non c’è più. Questa tappa è l’occasione per interrogarsi sulla sorte del defunto: “Dov’è? Che ne è stato di lui? Questa, in sostanza, è la domanda principale che si pone.
Di fronte allo shock del lutto, la vicinanza del corpo porta all’accettazione della perdita. Si può vedere in esso un significato spirituale e religioso che Padre Sertillanges descrive così: “Ciò che era nell’ordine della carne è ora nell’ordine dello spirito”. Per fare questo, dobbiamo volerlo e desiderare di entrare in questa comunione nello spirito.
Seconda tappa : la celebrazione
La condivisione collettiva della perdita, del lutto. È il tempo della ricerca del significato e dell’espressione del perdono.
Terza tappa : la sepoltura
Questa tappa simboleggia ciò che Padre Monbourquette – di cui raccomando i libri – chiama l’uscita dal lutto con l’eredità spirituale. È una vera alternativa a quella di Freud per il quale il dolore non finisce mai. Al contrario, l’eredità spirituale manifesta una fase in cui si comprende che, in un certo senso, il meglio della persona che ho tanto pianto è dentro di me e vive in me nel senso che mi sono appropriato di quelle qualità che ho riconosciuto in lui o in lei. È meraviglioso. Questo può essere aiutato dall’esistenza di un luogo della memoria in cui posso tornare.
Quarta tappa: la convivialità
Si svolge subito dopo la celebrazione. Diverse cose stanno accadendo in quel momento. Innanzitutto, la tensione nervosa si attenua. Anche in situazioni estremamente parossistiche in termini di dolore, morti brutali per esempio, c’è una forma di gioia. Si è in pace con se stessi, in quella sensazione di aver compiuto il proprio dovere di rendere un bel tributo e di aver realizzato qualcosa. Spesso diciamo a noi stessi: “È stata una grande celebrazione!”
Questo tipo di scambio è molto buono. Poi incontriamo persone che non vediamo da molto tempo e celebriamo il fatto che il defunto ci riunisca per ricordare, per ricordarci che una volta eravamo molto vicini. A volte programmiamo di rivederci… Qualcosa si rinnova e la relazione nella mente è all’opera. Questi sono tempi estremamente preziosi, felici e gioiosi ed è un bene che sia così.
Il rito funebre fa risuonare la parola che ogni morte ha da dire ai vivi
La ritualità consiste nel sapere dove e quando ci si troverà in presenza del defunto e cosa si vivrà in quei momenti. È del tutto possibile vivere questi passaggi in modo tecnico. Ad esempio, un addio al volto può consistere in un sollevamento molto tecnico del corpo con una semplice chiusura della bara in presenza dei propri cari senza che venga detto nulla. O una celebrazione in un luogo un po’ asettico, con la lettura di testi impersonali. O un po’ di musica ascoltata al crematorio etc.
Questi passaggi possono essere così tecnici da mettere a tacere la parola che ogni morte ha da dire ai vivi. O almeno, non le permettono di risuonare. Ed è proprio questo che guida il nostro impegno per il Servizio Funebre Cattolico.
La morte è una circostanza che mette alla prova i viventi riguardo alla propria esistenza, sia che si sia credenti o meno. Troppo spesso vedo arrivare persone che quasi si scusano per non essere religiose. Ma al Service Catholique des Funérailles diamo il benvenuto a tutti. Per quale motivo? Perché quello che proponiamo qui ha una dimensione cattolica, cioè universale.
Qual è il rapporto con la persona deceduta?
Nella costruzione del percorso rituale, ciò che conta è soprattutto la cura che metteremo nell’investire questi tempi e nel dare loro un senso. Dopo il primo contatto, durante il quale si evocherà forse una mancanza di fede o di pratica religiosa, emergerà in modo universale una domanda: quella di sapere se i legami affettivi che ci univano alla persona che piangiamo sono finiti. Possiamo ancora amarlo? Se n’è andato per sempre? O, al contrario, tesseremo qualcosa di diverso ancora? E cosa permetterà a questi legami di esistere?
Come tutti noi, provo dolore. Per esempio, amavo profondamente mia nonna. Quando avevo sedici anni, lei si ammalò di cancro al sangue. Alla vigilia di un pellegrinaggio a Roma, sono andato a trovarla e ho avuto l’occasione molto speciale di dirle addio. Sapevo che era l’ultimo momento.
Oserei dire quarant’anni dopo, che sono sicuro che la ritroverò come la vedevo allora. Per me il rapporto con lei si è aggiornato nel tempo. È molto speciale, ma molto profondo per me.
Il mio rapporto con mia nonna si è aggiornato. Vale a dire, ho sentito che era una compagna in quello che ho vissuto. Ad esempio, dopo la sua morte, si è posta la questione del mio matrimonio e ho sentito che lei non solo era presente in questa scelta, ma molto attiva. Quello che vi sto dicendo non è eccezionale. Molti di noi possono testimoniare che i loro morti hanno avuto un ruolo colossale nelle nostre scelte di vita. Possiamo prenderli per pazzi o riconoscere che questa storia è santa, che è una storia con il cielo, con l’aldilà che si rivela essere in realtà segretamente il quaggiù.
I morti vegliano sui vivi
Il rapporto con i nostri morti è un libro che non sarà mai scritto, ma è bello perché è pieno di belle storie dove i vivi sono aiutati da un’infinita benevolenza, da un desiderio profondo e attivo che la nostra vita vada nella giusta direzione, che cresciamo nella fede, nella speranza e che siamo brave persone, semplicemente.
Annunciare ai vivi che la morte non arresta tutto
La morte non ferma tutto. E in questo senso, il momento preciso dell’ad-Dio è fondamentale. Non vuoi perdertelo, anche se non si riduce tutto a questo. Ma una crescita della vita profonda, interiore, spirituale può mettervi le radici. Posso simboleggiare questa sequenza funebre con un gesto (fa il gesto di prendere qualcosa e spingerlo di lato) di lasciarsi andare: “Vai, non ti tratteniamo”. Perché trattenere è rimanere ancorati nei propri ricordi.
“Vai, non ti tratterremo” è acconsentire alla separazione da tutta questa materia, da tutto ciò che ha fatto la nostra vita e che dobbiamo trasfigurare in modo diverso, trasfigurare nella relazione nello spirito. La relazione nello spirito è entrare nella vita di Dio perché Dio è spirito, in un certo senso nel lutto.